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Counseling Day 2023


 
Ho avuto modo di leggere solo ieri l’intervento di Sardi del 26 maggio. Mi affretto a intervenire sulla materia per tranquillizzare l’amico Pierangelo circa i suoi timori per l’emanazione del D.Lgs 59/2010 che, da come leggo, modificherebbe la definizione di professione regolamentata, includendovi le attività non riservate. La sua preoccupazione sembra sincera leggendo l’articolo. Infatti, se veramente l’articolo 8 del D.Lgs 59/2010 includesse le attività non riservate nell’ambito delle professioni regolamentate, verrebbe a cadere il presupposto sul quale si fonda l’intero sistema ordinistico. E siccome lo so profondo studioso della materia - con lunghi soggiorni di studio in tanti Paesi europei, soprattutto in Gran Bretagna, come non perde occasione di ricordarci in ogni suo intervento, peraltro sempre profondo e dotto, forse solo alquanto prolisso, se mi è consentito - nonché strenuo difensore del sistema ordinistico, è chiaro che la lettura di quell’articolo di legge lo ha gettato nella disperazione più profonda. Si è sicuramente subito domandato: con una definizione del genere che senso avrebbe mantenere in vita un Ordine Professionale se poi lo Stato non gli affida nemmeno uno straccio di atto di professione in esclusiva? Come non avrebbe senso lasciare in vita la patente di guida, se poi fosse possibile guidare l’auto senza aver superato l’esame, così non avrebbe senso l’esame di Stato, ad esempio per gli ingegneri, se poi anche i salumieri potessero fare i calcoli di stabilità dei fabbricati, o quello per avvocati, se poi tutti potessero auto rappresentarsi in udienza.

Ancora più grave gli sarà risultata la situazione per il sistema ordinistico in un momento come questo di grande crisi economica. Chi e come potrebbe difendere il mantenimento in vita di Istituti che perderebbero ogni funzione di salvaguardia dell’interesse pubblico e che comportano per la collettività costi assai elevati? Facciamo un rapido conto. Ogni Ordine che si rispetti ha base provinciale, quindi circa 100 sedi, 100 presidenti, 1.000 consiglieri, 1.000 dipendenti (mal contati), 100 riviste, e via con ogni funzione moltiplicata per 100. Ogni Ordine ha poi un Consiglio Nazionale con il suo Presidente, i Consiglieri, i Revisori dei Conti, i Probiviri, etc. Ogni riunione del Consiglio comporta spostamenti aerei, pernottamenti in alberghi romani e pranzi di lavoro (solitamente in locali a cinque stelle) e rimborsi vari (per i quali non vi è sempre totale chiarezza), oltre al personale per l’attività corrente, i vari consulenti e così via. Non crediamo di sbagliare di molto ma un Ordine non può costare alla collettività degli iscritti meno di 100 milioni di euro l’anno. Gli Ordini in Italia sono circa 30, per cui è facile convincersi che con quei soldi avremmo fatto un bel pezzo della manovra di riassetto. Tremonti, appena se ne accorge, li taglia tutti, insieme agli Enti culturali, ma con guadagni per l’erario ben maggiori. E neppure il Presidente Napolitano potrebbe farci niente.

L’amico Pierangelo manifesta grande dispiacere anche per i tanti funzionari che, da come scrive, sembra abbiano passato gli ultimi tre anni della loro vita, dal novembre 2007 data di emanazione D.Lgs 206, chini sulle 70 domande giunte dalle libere associazioni, tanto da rimanere “costernati per tanto lavoro sprecato, rendendosi conto che questo inserimento delle attività non riservate blocca l’iter di moltissimi decreti, rimettendoli in discussione praticamente tutti“. Mi dispiace che la mia disattenzione lo abbia lasciato una settimana nella depressione più profonda. Fortunatamente lui è uno psicologo e quindi avrà trovato i rimedi alla depressione nella sua scienza, anche se mi dicono che abbia poco frequentato la materia essendosi occupato a tempo pieno di problemi sindacali. Con questo mio intervento lo voglio tranquillizzare ed assieme a lui voglio tranquillizzare i funzionari: non è cambiato nulla, gli Ordini sono salvi e della imponente mole di lavoro fatto non andrà sprecata una sola virgola. Vediamo di spiegare in modo elementare la questione, non senza prima ricordare che il fine della direttiva qualifiche è facilitare la circolazione dei fornitori dei servizi professionali in Europa, di annullare gli sbarramenti che esistono in alcuni Paesi europei (non a caso l’Italia è quella che ne ha di più), ridurre al minimo le riserve di attività; in altri termini liberalizzare, al fine di aumentare la competitività. In questo ambito il sistema autorizzatorio, proprio dei nostri ordini, si pone agli antipodi di quello che l’Europa auspica e promuove, cioè il sistema accreditatorio proprio delle libere associazioni professionali. E’ sopportato perché in termini politici è stato raggiunto un compromesso, ma è visto come residuale. D’altra parte è stato proprio Sardi, in audizione alle Commissioni riunite II e X della Camera dei Deputati, che ci ha ricordato che la direttiva qualifiche “ha previsto la costituzione di piattaforme comuni a cui devono partecipare, da un lato, gli ordini e i collegi e, dall'altro, nei Paesi dove esistono, anche le associazioni”. E in Italia le Associazioni esistono, anche grazie al tanto bistrattato articolo 26.

Visto che mi ci trovo, Caro Direttore, vorrei fare una piccola digressione. In quella audizione Sardi, forte della sua indiscussa e già riconosciuta conoscenza delle regole inglesi, ha evidenziato che il sistema duale, che noi vorremmo introdurre in Italia e che lui vorrebbe non fosse introdotto, già esiste in Inghilterra. Su questo tema sarebbe meglio che si mettesse d’accordo con il suo amico Siciliotti che invece (sper)giura che il sistema duale che noi proponiamo è un mostro sconosciuto in Europa. Quando si dice che le bugie hanno le gambe corte! Nella stessa audizione Sardi ci insegna anche che nel Regno di Albione gli Ordini accertano “i requisiti minimi, le associazioni stabiliscono l'eccellenza, ossia i requisiti superiori ai minimi o più specifici di quelli generali richiesti per esercitare la professione”. Proprio quello che noi vorremmo anche per le professioni ordinistiche, ma che non riusciamo ad ottenere per l’opposizione sua e dei suoi compari Presidenti di Ordini. Lui, che è un cultore della materia, sicuramente ricorda benissimo l’opposizione degli Ordini all’articolo 27 della bozza Vietti, che prevedeva il rilascio degli attestati di competenza per le associazioni professionali costituite da iscritti agli ordini, così come sa della norma presente nella riforma forense in discussione al Senato che conferma la proibizione del rilascio degli attestati. Per gli Ordini far sapere alla utenza le specializzazioni degli iscritti sembra una bestemmia, quasi la rivelazione di un segreto di Stato: occorre livellare tutto verso il basso, così chi non si aggiorna non viene penalizzato, si prendono più voti e si conservano le poltroncine di Presidente. L’esatto opposto di tutta la logica che ha portato alla emanazione della direttiva qualifiche e che sovrintende ad ogni norma in materia di professioni, almeno dal 1913, data della costituzione del primo Ordine.

Direttore, approfitto della Sua cortesia per fare una seconda digressione. Sardi, sempre nella ricordata audizione, con il suo fare professorale, afferma, riferendosi alle nostre libere associazioni, che “in Italia si crede sostanzialmente che si possano valorizzare anche standard inferiori a quelli che gli ordini richiedono per l'accesso”. Prosegue affermando che “l'intera professione di commercialista è da considerarsi professione regolamentata, anche se solo la modalità difficile di esercizio, che prevede il superamento dell'esame di Stato, è adottata da alcuni. Gli altri sono anch'essi regolamentati e, quindi, non possono essere considerati una nuova professione, non possono essere considerati «sregolati» e non possono richiedere un riconoscimento della loro incompetenza”.

Mi meraviglia molto l’errore in cui cade un Maestro come l’amico Pierangelo. Probabilmente, in questo caso, lo spirito di appartenenza ha preso il sopravvento sulle sue sempre lucide considerazioni. Come può aver dimenticato che è dal 1996 che la Corte Costituzionale ha affermato che, al di fuori delle attività comportanti prestazioni che possono essere fornite solo da soggetti iscritti ad albi, per tutte le altre attività di professione intellettuale o per tutte le altre prestazioni di assistenza ovvero di consulenza, vige il principio generale di libertà di lavoro autonomo o ancora di libertà di impresa di servizi a seconda del contenuto delle prestazioni e della relativa organizzazione (Corte Costituzionale, n. 418/1996) e che questa massima ha trovato successive sempre conformi applicazioni? E poi, come può seriamente affermare che l’esame di Stato, istituito insieme ai primi ordini professionali in modo da consentire allo Stato, appunto, di sincerarsi delle conoscenze di base del professionista prima di affidargli delle esclusive, cioè il diritto di eseguire alcune prestazioni di grande rilievo per la collettività (difesa in giudizio, cura delle salute, sicurezza per la vita, etc.) abbia senso per chi non è destinatario di esclusive, ma, soprattutto, abbia ancora senso oggi con l’accelerazione delle conoscenze che mettono fuori gioco chi non si aggiorna in continuazione? Per non dire che l’Esame di Stato viene superato dall’oltre 90% dei partecipanti, nel caso dei dottori commercialisti: dove sta la selezione? No, questa volta Sardi mi ha deluso. Ma va capito, perché difendere una causa persa è cosa ardua anche per un fuori classe come lui che sa benissimo, è stato lui ad insegnarmelo, che il modus operandi delle associazioni professionali che verificano il saper fare al momento, nonché il mantenimento nel tempo della capacità di fare è il sistema migliore per garantire l’utenza ed assicurare un ottimo standard di qualità. La conferma che siamo noi nel giusto ce la stanno dando proprio gli Ordini che si stanno affannando per cercare di imitarci imponendo ai loro iscritti i corsi di aggiornamento, quelli che le nostre Associazioni qualificate fanno da sempre; peccato che poi non prevedano l’accertamento dell’apprendimento con esami. Per gli Ordini vale la massima di De Cubertin: l’importante è partecipare!

Bene, torniamo a noi ed ai D.Lgs di recepimento.

Il D.Lgs. 206/2007 di recepimento della Direttiva Comunitaria 2005/36 sulle qualifiche professionali prevede l’istituzione di piattaforme comuni per uniformare i pacchetti formativi per l’accesso alle professioni nei vari stati membri. All’elaborazione delle piattaforme comuni partecipano (quali interlocutori degli Organi Istituzionali competenti) gli esperti della materia delle professioni regolamentate (gli Ordini professionali) e di quelle non regolamentate (le Associazioni professionali).

Il D.Lgs. 59/2010 di recepimento della Direttiva Comunitaria 2006/123 sui servizi, quindi materia diversa, si avventura nella definizione di professione regolamentata definendola come quell’attività professionale o quell’insieme di attività professionali “riservate o non riservate, ai sensi dell’art 4, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 9 novembre 2007, n. 206”, articolo che, però, da una definizione affatto diversa della professione regolamentata: “l’attività, o l’insieme delle attività, il cui esercizio é consentito solo a seguito di iscrizione in Ordini o Collegi …” E allora? Ci troviamo di fronte ad uno dei tanti casi di questi ultimi anni in cui si legifera cercando di far rientrare dalla finestra ciò che è uscito dalla porta. Ma l’esito è sempre stato un buco nell’acqua. Non sappiamo di chi sia stata la manina che ha scritto la norma, anche se abbiamo qualche idea. Quel che sappiamo però è che chi ha cercato di mettere in atto il trappolone ha dimenticato alcuni passaggi.

Innanzitutto ha dimenticato che il decreto che recepisce la “direttiva servizi” contiene all’art. 9 la c.d. clausola di specialità con la quale si esclude l’applicazione delle norme che contrastano con quanto previsto dalla direttiva sulle qualifiche e dal suo decreto di recepimento, con l’effetto che la nuova definizione di professione regolamentata si pone come mai resa (gli esperti direbbero tanquam non esset) e quindi incapace di modificare alcunché poiché in evidente contrasto con quelle speciali già cristallizzate. Se non bastasse, è sufficiente osservare che la definizione di “professione regolamentata” del decreto 59/2010 è in netto ed evidentissimo contrasto anche con la direttiva di riferimento (la 2006/123) oltre che con quella sulle qualifiche professionali (la 2005/36). Se ancora non bastasse si può ricorrere alla sentenza ormai definiva del TAR Lazio (la n. 3122/2009) che ha chiarito che per professioni regolamentate debbano intendersi solo quelle svolte dagli iscritti di alcuni Ordini (tra i pochissimi: gli avvocati, i medici e gli ingegneri).

Sardi può tranquillizzarsi così come possono mettersi comodi gli Ordini professionali che lui incita a rivolgersi al Ministero. Non saranno sciolti, ma del pari non vi è possibilità di blocco per le pratiche di indicazione delle associazioni professionali che dopo tre anni sono in dirittura di arrivo. Un diverso comportamento da parte del Ministero sarebbe un atto davvero temerario, in evidente contrasto con le norme vigenti. Concludo, cortese Direttore, con una considerazione di tipo generale. Gli Ordini professionali che sanno benissimo di aver perso la loro battaglia, non contro di noi, che siamo piccola cosa, ma con la modernità, hanno adottato la parola d’ordine di Borrelli, il magistrato di mani pulite: resistere, resistere, resistere! Buttando la palla avanti, qualcosa può sempre succedere. Ma questa volta hanno sbagliato porta: hanno fatto autogoal!

titolo: Gli ordini hanno perso la battaglia
autore/curatore: Giuseppe Lupoi
fonte: CoLAP
data di pubblicazione: 04/06/2010

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